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L'omelia di Mons. Castellucci durante la Messa pontificale di San Geminiano

Di seguito il testo completo dell'omelia pronunciata dall'Arcivescovo questa mattina in Duomo

Una ricetta sicura per complicarsi la vita è occuparsi degli altri. Viceversa, un segreto per vivere tranquilli è pensare a se stessi. Qualche volta noi pieghiamo addirittura il nobilissimo concetto di “pace” ad esprimere un ideale di disimpegno: “voglio stare in pace”, “lasciatemi in pace”. Siamo arrivati a identificare la serenità con l’isolamento e il fastidio con la relazione. Ma i profeti, che hanno migliorato la storia, l’hanno fatto proprio complicandosi la vita, rifiutando la falsa pace dell’indifferenza e giocandosi per la vera pace del dono di sé. La falsa pace fa leva sull’istinto di autoconservazione; la vera pace dà voce al desiderio di relazione.

Cos’è che fa la differenza dentro di noi? Che cosa ci muove alla vera pace dell’impegno e del sacrificio anziché alla falsa pace del ripiegamento su noi stessi? Il Vangelo di oggi lo esprime con una parola, che va compresa bene: “compassione”. Dice infatti che Gesù, “vedendo le folle, ne sentì compassione, perché erano stanche e sfinite come pecore che non hanno pastore”. Ciò che fa scattare in lui e negli apostoli il desiderio di curare malati e infermi è la compassione. A spingere Gesù e i discepoli verso i fratelli fragili non è dunque un’azione, ma una “passione”; com-patire significa letteralmente condividere la sofferenza. Prima che “fare qualcosa per gli altri”, è necessario “lasciarsi raggiungere dagli altri”; solo se la fragilità dell’altro mi entra nel cuore, solo se la sento mia, solo se la ospito dentro di me, posso superare l’indifferenza, posso aiutare senza mortificare, dare una mano senza puntare il dito.

In uno dei passaggi più noti di Lettera a una professoressa, scriveva don Lorenzo Milani: “ho imparato che il problema degli altri è uguale al mio. Sortirne tutti insieme è politica. Sortirne da soli è avarizia”. È la differenza, in fondo, tra la vera pace e la falsa pace, tra la compassione e l’indifferenza. La politica più alta prende le mosse dalla compassione, dalla condivisione dei problemi, dalla partecipazione intima alle fragilità degli altri. La politica con la “P” maiuscola, come la chiama papa Francesco, è la più alta forma di amore, perché si rivolge non solo ai vicini o a coloro che se lo meritano, ma guarda al “bene comune”, si lascia toccare il cuore dalle fragilità altrui, cerca di compensare le ingiustizie, dà la parola a chi non ha voce. In un discorso del 1927 ai giovani della FUCI, in piena dittatura fascista, papa Pio XI disse che era necessario porre le basi «della buona, della vera, della grande politica, quella che è diretta al bene sommo e al bene comune, quella della polis, della civitas, a quel pubblico bene, che è la suprema legge a cui devono essere rivolte le attività sociali». E concludeva che il bene comune «è il campo della più vasta carità, della carità politica». La carità politica non è quindi un optional. Fare politica, in questo senso altissimo, è dovere morale di tutti i cittadini e non solo di coloro che lavorano nelle istituzioni; e per i cristiani è un dovere fondato sul Vangelo, prima ancora che sulla coscienza e sulle leggi democratiche. Gesù ha affisso nei cuori umani un manifesto politico incisivo e concreto, direi quasi corporeo: dare da mangiare agli affamati, da bere agli assetati, vestire chi è nudo, accogliere i forestieri, visitare i carcerati e curare i malati. Il programma politico di Gesù riguarda prima di tutto le necessità materiali, ma si estende poi a quelle morali e spirituali: agli affamati e assetati di verità e giustizia, a chi è spogliato della dignità, a chi viene estraniato dal mondo di quelli che contano, a chi è privato della vita, della libertà e della salute, a chi cerca un senso alla propria esistenza, che solo la fede in Dio può rivelare.

Per fare politica con la “P” maiuscola occorre quindi partire dalla condizione di chi è ritenuto minuscolo nella società; occorre, come dice ancora il Papa, ascoltare “il grido della terra e il grido del povero” (cf. Laudato si’, 49). Un grido intrecciato, perché la custodia del creato e la custodia dei fratelli vanno di pari passo. Quando gli uomini depredano la terra, la terra grida; e quando la terra grida, gli uomini – specialmente i più deboli – soffrono, fuggono, combattono tra loro, si ammalano. Un grido che però rischia di andare perduto nel rumore di una società che sembra in balia di chi urla più forte, di chi getta invettive sul prossimo, specialmente se debole e indifeso. Il grido della terra e il grido del povero è spesso soffocato dall’indifferenza e sopraffatto dalla confusione. Per sentirlo, per distinguerlo tra le tante voci, è necessario un cuore capace di “compassione”, come quello di Gesù; è necessario un animo “politico”, in grado di aprirsi agli altri, di uscire dalla propria gabbia interiore ed entrare nelle fragilità dei fratelli. “Politico”, in questo senso, è il contrario di “monolitico”, che significa chiuso in se stesso, irrigidito come un sasso nella propria situazione.

San Geminiano non ha lasciato scritti di suo pugno e nemmeno particolari tracce nella sua epoca. Rimangono però due dati incisi nella storia, che dimostrano la grandezza “politica” del suo cuore, la sua passione per il bene comune. La prima traccia è la sua firma al Sinodo di Milano convocato nell’anno 390 dal vescovo Ambrogio, allora metropolita della provincia ecclesiastica di cui faceva parte anche Modena; era un Sinodo riunito per riportare la pace nelle Gallie. In realtà nel registro non firma Geminiano, ma il suo segretario, il presbitero Aper, che dichiara di sottoscrivere per ordine del vescovo Geminiano, lui stesso presente. Il vescovo di Modena era infatti molto anziano – aveva quasi ottant’anni, all’epoca un’età ragguardevole – e la sua vista era ormai scarsa. Eppure volle essere presente di persona, non si accontentò di dare una delega, per quanto la causa di quel Sinodo potesse apparire così lontana: le Gallie, in fondo, erano fuori mano. Eppure lui si coinvolge, si fa conquistare dalla compassione: sente come “sua” la situazione di quelle lontane popolazioni ed offre di persona il proprio contributo. La seconda traccia storica, scolpita questa volta nella pietra – le sei scene della scuola di Wiligelmo nell’architrave della Porta del Battesimo – riguarda il famoso viaggio di Geminiano a Costantinopoli, per guarire la figlia dell’imperatore. Dove è importante non solo il suo ministero di esorcista e terapeuta, ma anche il fatto che esce nuovamente dalla propria città, affrontando un viaggio lungo e pericoloso: è davvero appassionato al bene di tutti, è un pastore che lascia conquistare dalla “compassione” per le persone fragili, anche se non appartengono alla cerchia dei “nostri”, dei “vicini”. Geminiano non è certo ripiegato sul bene proprio o dei suoi soli concittadini.

Il nostro patrono si è complicato la vita. Già i problemi di Modena potevano riempirgli la giornata e si è invece lasciato coinvolgere ben oltre i confini della sua città. Perché un cuore che prova compassione, che si lascia raggiungere dalle fragilità degli altri, non dice mai “lasciatemi in pace”, ma si impegna anche per la pace degli altri; non ha una visione monolitica e chiusa dei problemi, ma una visione politica e aperta. San Geminiano ci mantenga quella sana inquietudine che raffina l’udito, per ascoltare il grido della terra e il grido dei poveri.

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