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Cronaca

Islam e comunità locali, la prima mappatura religiosa dell'Emilia

Il Gruppo di Ricerca e Informazione Socio-religiosa (Gris) ha presentato stamane la prima ricerca che traccia una vera mappa del culto islamico nella nostra regione. Modena conta 27 centri, a Carpi l'unica comunità sciita. Marocchini e albanesi sono la maggioranza dei fedeli

Sono 176 i centri di culto islamici in Emilia-Romagna. Sono i dati della ricerca a cura dell’Osservatorio sul pluralismo religioso (Gris) presentati questa mattina in Assemblea legislativa. Si tratta della prima mappatura sulla diffusione dell’islam in Emilia-Romagna: un lavoro unico nel suo genere che illustra la situazione della regione. L'Emilia Romagna è seconda, dopo la Lombardia, a detenere il record per il numero di centri aperti e per il numero di musulmani in Italia: sono 183.000, il 13% del totale degli stranieri presenti nella penisola.

I centri islamici sono concentrati soprattutto nelle province: tra queste spicca Bologna che è in testa con 48 centri (14 in città e 34 in provincia), segue Modena con 27, Reggio Emilia con 22, Ferrara con 20, Ravenna con 17, Rimini e Forlì-Cesena con 12, Parma e Piacenza con 9.

Dalla ricerca emerge un islam plurale, articolato secondo la provenienza dei musulmani e, conseguentemente, secondo le scuole giuridiche islamiche. Le presenze più rilevanti sono da Marocco e Albania ma il panorama è in evoluzione e pone nuove sfide. La quasi totalità dei credenti appartiene alla corrente dei sunniti ma, ad esempio, a Piacenza la Comunità religiosa islamica è di ispirazione sufi, come a Carpi esiste l’unica realtà sciita censita in Regione. A Bologna e Ferrara esistono centri Subud, una corrente nata in Indonesia che propone una religiosità mistica con influenze induiste e buddhiste. A San Pietro in Casale, nel bolognese, c’è un centro Ahmadiyyat, un movimento che non potrebbe esistere in Pakistan e Arabia Saudita, dove è nato, perché perseguitato.

Le comunità religiose asiatiche e altre, ad esempio dal Senegal, sono sotto-rappresentate nello spazio pubblico rispetto alla componente maghrebina, sia per la lontananza geografica sia per la più recente migrazione sia anche per la tendenza alla chiusura etnica.

“Il lavoro di mappatura non è stato semplice - spiega Pino Lucà Trombetta, direttore dell’Osservatorio religioso-  a causa della mancanza in Italia di una legge sulla libertà religiosa e della difficoltà di rispettare tutti i requisiti richiesti per aprire un luogo di preghiera, tutte queste realtà sono classificate come associazioni o centri culturali, che operano sulla base del principio costituzionale di non-discriminazione”.

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