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Mercoledì, 24 Aprile 2024
Cultura

"Ma qual è il mio paese?", la lettera dell'Arcivescovo per la festa di San Geminiano

La società multietnica, le migrazioni e la figura dello straniero al centro del messaggio che mons. Erio Castellucci ha indirizzato ai modenesi in occasione della solennità del santo patrono. Questo il testo integrale

Ascoltando l’omelia che papa Francesco ha pronunciato pochi giorni fa, domenica 14 gennaio, in occasione della 104° Giornata Mondiale del migrante e del rifugiato, mi è venuto in mente un episodio capitato al doposcuola parrocchiale alcuni anni fa. La scena riguarda un bimbo di dieci anni, figlio di genitori tunisini, che insieme ad altri bambini – figli di famiglie italiane o provenienti dall’estero – frequentava il doposcuola parrocchiale. Era nato nel nostro paese e parlava perfettamente l’italiano. Quel pomeriggio era piuttosto confuso, perché la maestra che il giorno prima aveva assegnato un’esercitazione in classe dal titolo “Descrivi il tuo paese”, aveva riportato il compito corretto dicendogli che era andato fuori tema, poiché aveva parlato dell’Italia, mentre avrebbe dovuto parlare del “suo paese”. Quel bimbo chiese dunque all’insegnante del doposcuola: “ma qual è il mio paese?”.

Sono tante le persone che potrebbero domandarsi: “qual è il mio paese?”. Le migrazioni accompagnano da sempre la storia dell’umanità e segnano l’incontro e lo scontro tra culture, religioni e popoli. Pensiamo solo, per rimanere a casa nostra, ai circa 50 milioni di italiani che tra il 1870 e il 1970 emigrarono all’estero, soprattutto in Argentina, Stati Uniti, Brasile e Canada, ma anche in Australia. E pensiamo ai 254 milioni di migranti attuali, cioè circa il 3% degli abitanti del pianeta, dei quali circa 60 milioni sono profughi o sfollati, cioè costretti a lasciare la propria casa per andare in un altro paese o in un altro luogo del loro stesso paese, e oltre 22 milioni sono rifugiati, cioè persone che cercano di scappare dalle guerre e dalle violenze. Alle tante crisi politiche e sociali del pianeta si aggiungono crisi economiche e crisi ecologiche, le quali determinano altre migrazioni.

Il fenomeno è così complesso che nello spazio di una Lettera alla città non può neppure essere delineato. Pensando però che anche San Geminiano è stato migrante per qualche tempo, nel suo viaggio a Costantinopoli per guarire la figlia dell'imperatore - episodio splendidamente rappresentato nell'architrave della Porta dei Principi del Duomo di Modena - ho deciso di scrivere queste righe nell'annuale Solennità del nostro grande Patrono. Ringrazio in particolare l'ufficio diocesano Migrantes, che ha fornito delle riflessioni molto importanti, frutto di un lavoro di gruppo svolto con il metodo ispirato alla "scrittura collettiva" inventata oltre mezzo secolo fa dal maestro Mario Lodi e da don Lorenzo Milani. Ho cercato inoltre di mettere a frutto la lettura di diversi articoli e saggi sull'argomento e la partecipazione alcune settimane fa, insieme ad una cinquantina di sacerdoti della diocesi, a tre giornate di aggiornamento sulle migrazioni.

"Ma qual è il mio paese?". Questa frase tradisce prima di tutto un certo smarrimento, il timore di non avere un punto di riferimento stabile. Si potrebbe dire che esprime letteralmente uno "spaesamento". Forse per questo mi è venuto in mente l'episodio dell'oratorio proprio mentre ascoltavo papa Francesco. In un passaggio dell'omelia del 14 gennaio, infatti, ha detto: «Non è facile entrare nella cultura altrui, mettersi nei panni di persone così diverse da noi, comprenderne i pensieri e le esperienze. E così spesso rinunciamo all’incontro con l’altro e alziamo barriere per difenderci. Le comunità locali, a volte, hanno paura che i nuovi arrivati disturbino l’ordine costituito, “rubino” qualcosa di quanto si è faticosamente costruito. Anche i nuovi arrivati hanno delle paure: temono il confronto, il giudizio, la discriminazione, il fallimento».

Il timore, lo spaesamento, può riguardare dunque sia i cittadini italiani sia i migranti. I primi dicono a volte: "Ma qual è il mio paese? Non lo riconosco più: in giro vedo ormai più stranieri che italiani. è un'invasione! Non c'è lavoro nemmeno per noi italiani e loro vengono qua...". Sono considerazioni che si sentono quotidianamente, espresse con toni a volte rassegnati e a volte arrabbiati. In alcuni casi, specialmente su internet, frasi simili si replicano, favorendo anche giudizi sommari e dando la stura a linguaggi ostili e perfino ad espressioni volgari e violente. Anche i migranti qualche volta vivono paure, timori e chiusure e possono arrivare ad esprimere comportamenti ed avanzare pretese tali da provocare reazioni negative. Inaspettatamente papa Francesco definisce queste paure «legittime, fondate su dubbi pienamente comprensibili da un punto di vista umano». Diversamente da quanto alcuni pensano - che papa Bergoglio sia un sognatore ingenuo e ignaro della complessità del fenomeno migratorio - il suo sguardo è realistico: le paure esistono e non sono sempre infondate. E aggiunge: «avere dubbi e timori non è un peccato. Il peccato è lasciare che queste paure determinino le nostre risposte, condizionino le nostre scelte, compromettano il rispetto e la generosità, alimentino l’odio e il rifiuto. Il peccato è rinunciare all’incontro con l’altro, all’incontro con il diverso, all’incontro con il prossimo, che di fatto è un’occasione privilegiata di incontro con il Signore».
A volte purtroppo è la paura, alimentata ad arte, a prendere il sopravvento. Come favorire il passaggio dai legittimi timori, o dalle vere e proprie paure, all'incontro e all'inclusione? Credo che occorra passare attraverso la conoscenza della situazione. La paura infatti segnala un problema, ma non riesce a trovare la soluzione. Il primo passo per traghettare la paura verso l'incontro è il contrasto alla disinformazione.

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