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Chioschi, la rabbia di un gestore costretto a fare le valigie

Riceviamo e pubblichiamo la lettera del titolare del chiosco Habanero, che a fine settembre dovrà chiudere il proprio locale. Il chiosco verrà poi demolito, non rientrando più nel piano Comunale. Uno sfogo amaro a margine di un disastro amministrativo

Una delle prime iniziative riguarda il lancio di una petizione per chiedere al sindaco di Modena di rivedere le scelte che porterebbero alla chiusura del chiosco. La petizione è disponibile qui. Di seguito la lettera integrale:

Il lavoro è uno dei fondamenti della dignità umana, e l’articolo 4 della nostra Costituzione impegna le istituzioni a garantire e a rendere effettivo il diritto all’impiego. Quante volte abbiamo sentito ribadire le belle parole di questo principio e quante volte esse sono state tradite. Fra le tante, una violazione che tocca da vicino la nostra comunità è stata perpetrata dall’ultima amministrazione comunale. Mi riferisco alla vicenda dei chioschi del Parco delle Mura (o delle Rimembranze), un fulgido esempio di gestione disastrosa della cosa pubblica e di deriva perversa delle procedure amministrative. E questo a danno sia dei gestori sia dell’intera cittadinanza. 

Chiediamoci infatti chi, fra i modenesi, abbia apprezzato il progetto o almeno ne abbia condiviso la realizzazione. La risposta è immediata e ovvia: nessuno. Ma in quanto gestore, oltreché cittadino, intendo riportare la mia esperienza personale. Penso di lamentare una condizione comune a molti nel dire che sono una vittima incolpevole di numerosi errori altrui. E, come tutte le vittime, ho svariate ragioni per chiedere che venga fatta giustizia. 

Ho iniziato la mia attività nel 1987, quando acquistai il chiosco dalla precedente proprietaria, la signora Prampolini. Facendo un rapido calcolo, sono 27 anni che contribuisco ad animare il parco durante la stagione estiva. Ad oggi, il chiosco, che ha preso il nome di “Habanero Café”, è uno dei cuori pulsanti di Modena, punto di riferimento per tanti giovani modenesi in cerca non solo di svago, ma anche di stimoli culturali e artistici che è sempre più difficile fornire. Lo dico non per autocompiacimento, ma per esprimere un concetto che mi sembra importante: la vita di una città è sempre più complessa e stratificata di quanto non prevedano i piani regolatori e le politiche giovanili, e nel nostro caso viene da credere che nessuno conosca a fondo ciò che intende amministrare.

Ora, negli ultimi anni il Comune ha avviato un progetto di ristrutturazione complessiva del Parco delle Mura, ponendo i gestori di fronte a un vero e proprio aut-aut: aderire alle condizioni imposte o chiudere. Per noi, quindi, la scelta è stata obbligata. Tutti abbiamo accettato, sobbarcandoci le spese necessarie per costruire le nuove strutture: progetto, perizia geologica, contributo e fideiussione per il permesso di costruzione, contratti e acconti per l’impresa edile e l’acquisto di materiali e serramenti, ecc. 

La consegna dell’area su cui edificare il nuovo chiosco era prevista per il 31 dicembre 2013, ma è avvenuta solo diverse settimane dopo, perché (sic!) l’addetto comunale era in ferie. A questo impedimento se ne è poi aggiunto un altro: per l’inizio dei lavori era necessario “delocalizzare” alcune piante minori. Da ultimo è arrivato l’intervento della magistratura, che come è noto ha sequestrato i cantieri congelando l’avanzamento delle operazioni. 

Da quel momento in avanti, l’atteggiamento del Comune di Modena si è fatto sempre più rigido e inflessibile. La prima manifestazione di questa linea dura è stato l’abbattimento del numero dei chioschi. Il sottoscritto, in base a criteri di cui non è a conoscenza, è l’unica parte in causa che perderà la propria attività. Per inciso, dubito che il numero dei locali abbia mai costituito un problema per la cittadinanza; se c’è un problema, questo è rappresentato dalla miopia progettuale del Comune, che ha scelto unilateralmente strutture e materiali non idonei e fuori contesto (i famosi casermoni di cemento).

Ho detto di non conoscere le ragioni alla base della decadenza della mia autorizzazione e del mio permesso a costruire. In realtà, una motivazione ufficiale esiste ed è, incredibilmente, questa: non aver avviato i lavori entro il 31 dicembre 2013. Ma come avrei potuto farlo se il cantiere, a quella data, non mi era ancora stato consegnato? È evidente che si tratta di un puro pretesto, nella misura in cui anche altri gestori si erano ritrovati a non poter rispettare le tempistiche. In tutto questo, non mi viene nemmeno concesso di continuare a utilizzare il mio “vecchio” chiosco, tuttora operativo, quando si permette ad altri di installarne di nuovi dove prima non ne esistevano.

In conclusione, dopo essere stato costretto a impegnarmi economicamente, mi vedo anche tolta la possibilità di lavorare per far fronte ai debiti contratti. E ad andare perduto non è solo il mio lavoro, ma anche quello dei miei tre figli, che si sono sempre impegnati nella mia – anzi, nella nostra – attività, ora costretta a chiudere. 

Qui è impossibile distinguere il grave danno familiare da quello sociale. Devo forse accettare che il Comune disponga a suo piacimento di realtà imprenditoriali come la nostra, di attività piccole e senza tutele che contribuiscono in modo decisivo al benessere comune? E i miei figli devono forse assimilare il messaggio che il lavoro non paga, che le idee e le ambizioni non possono crescere o, peggio, che il pericolo più grande viene proprio dalle istituzioni che dovrebbero incoraggiarli e sostenerli? Di fronte a questa situazione ingiusta e alle mortificazioni subite, penso al loro futuro con la stessa preoccupazione con cui guardo al mio.

Pertanto, non riuscendo in alcun modo a ragionare con l’Amministrazione, annuncio che intendo intraprendere importanti, se non clamorose, azioni di protesta.

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