rotate-mobile
Attualità Centro Storico / Piazza Grande

In Municipio 12 rose bianche per raccontare le donne vittime della mafia

Sono 12 le storie lette dai capigruppo, dal presidente Poggi e dal sindaco Muzzarelli. Enza Rando, vicepresidente di Libera, ha raccontato Lea Garofalo: “Il suo esempio per la libertà”

Spezzate, come le vite delle donne vittime delle mafie, ma capaci di esprimere immutata bellezza e di incarnare una purezza che nemmeno la violenza più feroce può scalfire. C’erano 12 rose bianche, appunto simbolicamente spezzate, al centro dell’iniziativa “Donne vittime di mafia: Lea Garofalo, Denise e altre undici storie” che si è svolta oggi, giovedì 24 marzo, in Consiglio comunale a Modena. In aula, infatti, sono state portate le tragiche vicende di 12 donne che hanno perso la vita a causa della criminalità organizzata, raccontando la loro storia e il loro sacrificio: il fiore reciso, poi ricollocato in acqua in un vaso a simboleggiare la vita spezzata che prosegue con l’esempio.

“Dedichiamo questa seduta alle donne vittime di mafia – ha affermato il presidente dell’Assemblea Fabio Poggi – offrendo così il nostro contributo e la nostra testimonianza nel solco sia delle iniziative in corso per la Giornata della donna dell’8 marzo, sia raccogliendo il testimone dei protagonisti della Giornata della memoria e dell’impegno in ricordo delle vittime innocenti delle mafie celebrata pochi giorni fa, il 21 marzo”. Ma con questa iniziativa si è voluto anche “dare l’abbraccio di Modena e del Consiglio a tutte le donne che combattono le mafie”. All’iniziativa ha partecipato l’avvocata Enza Rando, vicepresidente di Libera.

Lea Garofalo con sua figlia Denise, Simonetta Lamberti, Renata Fonte, Susanna Cavalli, Marcella Di Levrano, Francesca Morvillo, Emanuela Loi, Rita Atrià, Lia Pipitone, Ilaria Alpi, Maria Chindamo e Maria Concetta Cacciola sono le donne ricordate dal Consiglio nella cerimonia che rientra nel programma di eventi e approfondimenti sviluppato dall’Amministrazione comunale, in collaborazione con Libera, Avviso pubblico e il Centro studi e documentazione sulla legalità di Unimore. Tra loro una bambina, una magistrata, una studentessa, una poliziotta, donne uccise dalla famiglia mafiosa: le storie di queste donne, molto diverse tra loro ma accomunate dalla violenza mafiosa subita, sono state lette dai nove capigruppo dei gruppi consiliari, dal presidente Poggi, dal sindaco Gian Carlo Muzzarelli e da Rando.

La vicepresidente di Libera ha concluso gli interventi, concentrandosi sulla figura di Lea Garofalo, di cui è stata peraltro legale difensore fino alla morte nel 2009. “L’eredità di Lea non è solo la figlia Denise – ha detto – ma anche la sua ricerca di libertà: ha raccontato e ha insegnato che un’altra vita è possibile al di fuori degli schemi mafiosi”. Parlare delle donne che hanno perso la vita a causa delle mafie, quindi, “da un lato consente di custodirne la memoria, un vero e proprio ‘bene comune’, e dall’altro dona più forza a tutte le donne che oggi combattono queste difficili situazioni, consapevoli che un Consiglio comunale parla di loro e si schiera al loro fianco, con la certezza che la lotta per la libertà è più forte del buio delle mafie”

Introducendo la cerimonia, il presidente Poggi ha messo anche l’accento sul valore del ricordo: “Non dobbiamo dimenticare quante donne sono vittime di un’unica ignobile violenza in cui degenerano diversi tipi di soprusi – ha affermato – né a quante donne sono negate con la violenza, che si esprime nelle forme più orribili, i loro diritti, pure quelli elementari”. E proprio “il ruolo di donna – ha rilevato – è stata la ‘colpa’ per diventare bersaglio delle mafie”.

Dopo aver dedicato un pensiero alle donne ucraine vittime del conflitto (“Madri, lavoratrici e giovani costrette a separarsi dai propri cari e a fuggire del proprio Paese, o prigioniere di bunker e di città assediate, spesso vittime di violenza”), il sindaco Muzzarelli ha sottolineato l’importanza di “sconfiggere le mafie offrendo a tutti, a partire proprio dalle donne, altri esempi, altre opportunità, altri valori. I valori non sono, né mai potranno esserlo, quelli delle mafie, che sono sempre scorciatoie: per il denaro facile, per il potere”. Le donne vittime di mafia, ha concluso, “sono spesso persone che con estremo coraggio hanno saputo opporsi, dire di no quando sarebbe stato semplice dire di sì”.

Le 12 storie

La cerimonia dedicata alle donne vittime della violenza mafiosa è stata aperta dal presidente del Consiglio comunale Fabio Poggi che ha letto la storia di Simonetta Lamberti. Simonetta era nata a Napoli il 21 novembre 1970 ed è morta, uccisa da una raffica di colpi d’arma da fuoco, il 29 maggio 1982, a soli 11 anni. Figlia del giudice Alfonso Lamberti, che seguiva casi di criminalità organizzata, quel giorno era stata al mare con il padre, per un giorno di vacanza insieme. Mentre tornano a casa, Simonetta si addormenta sul sedile accanto al padre. Sulla strada che li riporta a casa, a Cava dei Tirreni, vengono affiancati da un’auto da cui partono colpi d’arma da fuoco all’indirizzo del giudice che viene ferito ma si salva. Simonetta muore sul colpo.

Le altre storie sono state lette dai nove capigruppo e dal sindaco Gian Carlo Muzzarelli che ha raccontato dell’assessora di Nardò Renata Fonte, vittima del primo omicidio di mafia commesso nel Salento. Nata il 10 marzo 1951, si sposa con il sottufficiale dell’Aeronautica Attilio Matrangola e gira molte città seguendo il marito. Nel 1980 il marito viene trasferito a Brindisi e la famiglia, nella quale intanto sono arrivate due figlie, rientra a Nardò. Renata si diploma, inizia a insegnare come maestra elementare e comincia a impegnarsi attivamente in politica, aderendo al Partito repubblicano e iscrivendosi all’Udi. L’amore per la sua terra la spinge a dirigere il Comitato per la tutela di Porto Selvaggio, minacciato da speculazione edilizia. Dopo essere stata eletta consigliera e assessora si oppone agli illeciti che ha scoperto: comincia a ricevere minacce di morte che diventano realtà nella notte tra il 31 marzo e l’1 aprile 1984.

Susanna Cavalli, studentessa di Lettere e filosofia a Parma, tornava da Roma dove era stata in visita in San Pietro, insieme al fidanzato. Il 23 dicembre 1984 salgono sul treno rapido 904 che doveva riportarli a casa, ma alle 19.04 un’esplosione dilania il treno causando 267 feriti e 16 morti, tra i quali Susanna, che aveva 22 anni. L’attentato viene fatto risalire a Cosa nostra.

Marcella Di Levrano nasce in Puglia, a Mesagne, il 18 aprile 1964. Dopo la separazione dei genitori trascorre una vita travagliata, entrando e uscendo dagli ambienti della droga gestiti dalla Sacra corona unita, fino a quando decide di cambiare vita per salvare sè stessa ma soprattutto la figlia Sara. Dal giugno 1987 inizia a collaborare con le Forze dell’ordine facendo nomi e cognomi di persone legate allo spaccio e al traffico di droga. Avrebbe dovuto essere la prima testimone nel processo contro la Sacra corona unita, nel novembre 1990, ma viene fatta sparire l’8 marzo dello stesso anno. Il suo corpo sarà ritrovato solo un mese dopo.

Francesca Morvillo, laureata in Giurisprudenza nel 1967 è stata giudice del Tribunale di Agrigento, poi sostituto procuratore della Repubblica al Tribunale minorile di Palermo e quindi Consigliera della Corte d’appello di Palermo. Nel 1979 conosce il giudice Giovanni Falcone che sposa nel maggio del 1986. Viene uccisa insieme a lui dalla mafia a Capaci il 23 maggio 1992.

Emanuela Loi è stata la prima donna poliziotto a morire in una strage di mafia: il 19 luglio 1992, in via D’Amelio, a Palermo, nell’attentato che uccise il giudice Paolo Borsellino. Emanuela, nata a Sestu, in provincia di Cagliari, era entrata in Polizia nel 1989 e viveva il suo incarico come una missione. Era stata assegnata alla scorta di Borsellino nel giugno 1992.

Rita Àtria nasce in una famiglia mafiosa di Partanna. A 11 anni rimane orfana di padre, ucciso dalla mafia. Nel 1991 anche il fratello Nicola viene ucciso e sua moglie, Piera Aiello, decide di collaborare con la giustizia. Rita, che all’epoca ha 17 anni, decide di imitarla e si affida alla magistratura e in particolare a Paolo Borsellino, al quale si lega come a un padre. La strage di via D’Amelio la devasta, e il 26 luglio 1992 Rita si suicida lanciandosi dal settimo piano del palazzo a Roma dove viveva in segretezza.

Lia Pipitone è la figlia di Antonino, boss del quartiere dell’Acquasanta a Palermo e uomo di Totò Riina. Fin da ragazzina si ribella al mondo in cui le viene imposto di vivere e arriva a sposarsi con un compagno di liceo da cui ha un figlio. Quando decide di separarsi, Lia rompe tutte le tradizioni che Cosa nostra impone alle donne di famiglia: “Meglio una figlia morta che separata”, dice spesso il padre. E Lia viene uccisa, il 23 settembre 1983, in una sparatoria in un negozio che viene fatta passare per una rapina. Il giorno successivo viene ritrovato morto anche il suo migliore amico, Simone Di Trapani, con il quale si mormorava che avesse una relazione.

Ilaria Alpi era una giornalista del Tg3. Fu uccisa il 20 marzo 1994, insieme al suo operatore Miran Hrovatin, a Mogadiscio, dove era stata inviata dal Tg3 per seguire la guerra civile somala e indagare su un traffico di armi e di rifiuti tossici illegali.

Maria Chindamo era calabrese, era sposata e aveva tre figli. Dopo la separazione, il marito si toglie la vita, il 6 maggio 2015. Maria lascia la sua professione di commercialista e diventa imprenditrice agricola: è una donna sola, in una terra in cui la presenza della ‘ndrangheta cerca di soffocare l’intraprendenza delle donne, considerate proprietà della famiglia, e le sue scelte suscitano scalpore. Il 6 maggio 2016, anniversario della morte del marito, esce di casa alle 7 del mattino e scompare. Non sarà mai più ritrovata. Nel gennaio 2021, un collaboratore di giustizia conferma che la scomparsa di Maria è stata causata anche dal suo rifiuto di cedere le proprie terre alle cosche.

Maria Concetta Cacciola nasce a Rosarno in una famiglia di mafia il 30 settembre 1980. A 13 anni è già sposata con il mafioso Salvatore Figliuzzi, che sarà arrestato nel 2002. A quel punto Maria Concetta decide di fuggire dalla vita di violenza a cui è costretta e, rompendo la segregazione impostale dai familiari, riesce a contattare i Carabinieri. Viene messa sotto protezione e allontanata da Rosarno dove, però, rimangono i figli. È usandoli come “esca” che i familiari riescono a farla tornare e la convincono a ritrattare le sue testimonianze, cosa che lei fa il 12 agosto 2011. Il 20 agosto viene ritrovata in fin di vita dopo aver ingoiato acido muriatico. L’apparenza vuole essere quella di un suicidio, ma la modalità dice altro.

La cerimonia si è conclusa con l’intervento di Enza Rando che ha raccontato la storia di Lea Garofalo e di sua figlia Denise, oggi nel programma di protezione dopo aver fatto condannare il padre e gli zii per l’assassinio della madre.

Lea era nata a Petilia Policastro, in provincia di Crotone, il 24 aprile 1974. Cresciuta in una famiglia “ndranghetista, a 13 anni si innamora di Carlo Cosco e lo segue a Milano dove lui gestisce un traffico di droga e dove, nel 1991, nasce la figlia Denise. Nel 1998 Cosco viene arrestato e nel 2002, dopo aver subito pesanti intimidazioni, Lea diviene testimone di giustizia. Inizia un periodo molto difficile, nel corso del quale Lea si rivolge anche a don Ciotti che la mette in contatto con Libera e con l’avvocata Rando. Nel novembre 2009, l’ex marito le propone di salire a Milano per discutere del futuro della figlia, Lea decide di fidarsi ma Cosco la ucciderà strangolandola in un appartamento di corso Sempione, facendo sparire il suo corpo. Cosco e i suoi complici oggi scontano l’ergastolo. Il funerale civile e pubblico di Lea Garofalo si è celebrato solo nel 2013, a Milano, con la partecipazione di centinaia di persone, di don Ciotti, del sindaco Pisapia e, da lontano, della figlia Denise.

In Evidenza

Potrebbe interessarti

In Municipio 12 rose bianche per raccontare le donne vittime della mafia

ModenaToday è in caricamento