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L'intervista | Strage in carcere, il ricordo di nove morti in una città che vuole dimenticare

Abbiamo intervistato Sara Manzoli, reduce dalla pubblicazione del suo ultimo libro dal titolo "Morti in una città silente. La strage dell'otto marzo nel Carcere Sant'Anna di Modena"

Un incontro casuale, la necessità di ridare dignità e giustizia a persone a cui il carcere ha tolto tutto, persino la vita. Nasce così  "Morti in una città silente. La strage dell'otto marzo nel Carcere Sant'Anna di Modena" di Sara Manzoli, autrice modenese d'adozione con cui abbiamo avuto il piacere di confrontarci.

Il libro, partendo dalla rivolta che l'8 marzo 2020 ha interessato l'istituto penitenziario modenese, parla delle nove persone che lì sono decedute. "Questo libro vuole lasciare memoria di loro, della loro esistenza" racconta Sara, "ho lavorato moltissimo alla ricostruzione dei loro profili, per umanizzarli". Così l'autrice, in controtendenza rispetto a chi li etichetta come i 'nove morti di Modena', ha voluto raccontare chi fossero, quanti fratelli avessero, se avessero lasciato dei figli. "Da cittadina, ho pensato che deumanizzarli in quel modo fosse una cosa terribile: così più che della rivolta, ho parlato delle persone". Con una punta di orgoglio, Sara ci racconta di come il Comitato Verità e Giustizia per le Vittime del Sant'Anna (di cui fa parte) abbia tradotto nella realtà l'obiettivo di ridare dignità ai '9 morti', contribuendo tramite una raccolta fondi a rimpatriare la salma di uno di loro, Hafedh Chouchane.

"Un detenuto non ha meno diritti degli altri: in carcere si può essere privati della libertà, ma non della dignità"  dice Sara. Eppure, alle volte, sacrificare i diritti di chi è dietro le sbarre sembra - se non giustificabile - quantomeno poco importante: "ora il carcere è visto come una discarica sociale in cui buttare dentro chi non serve, chi fa male alla società". Come più diffusamente spiega nel libro, Sara dice di essere convinta che la disumanizzazione derivante dallo stigma del "detenuto" sia acuita dalla condizione di "immigrato" e "tossicodipendente", che etichetta i nove morti così come la maggior parte della popolazione carceraria modenese. Le abbiamo chiesto se, secondo lei, se fossero state persone diverse anche l'attenzione sarebbe stata diversa: "Certo, senza dubbio", ha risposto.

Una deumanizzazione che inizia prima della rivolta, tra le mura, e che continua fuori, con il silenzio. Il silenzio, filo conduttore della nostra intervista, nel libro gioca un ruolo fondamentale, e nel titolo appare come una provocazione: Modena, la "città silente". Perchè? Oltre al silenzio dettato dal fatto che fosse la vigilia del primo lockdown per covid, spiega Sara Manzoli, "il punto su cui volevo porre l'attenzione con il titolo è il silenzio che è calato su queste nove morti. Da subito è uscita la notizia che le morti fossero state attribuite ad overdose di metadone, e questa idea si è susseguita nel tempo, fino all'archiviazione, nonostante le discrepanze rilevate dagli avvocati".

Ricordiamo infatti che il processo per otto delle nove morti è stato archiviato nel giugno dello scorso anno, e anche per il processo relativo all'ultimo decesso, quello di Salvatore Sasà Piscitelli, è stata chiesta l'archiviazione. La città però, agli occhi di Sara è stata "silente anche rispetto ai cittadini modenesi, che sulla morte di nove persone avvenuta nella loro città non si sono minimamente indignati, nè interrogati su quali potessero essere le cause". Ma qual è il motivo? Se il carcere è visto dai più come una discarica sociale, "una città come Modena, non vuole assolutamente che la propria bella faccia venga turbata da questioni come queste. Modena non ha voglia di occuparsi di ciò che non funziona, preferisce coprirlo, senza mettersi in discussione". E i posti dove le istituzioni carcerarie funzionano bene, dice Sara, ci sono: "lì, le rivolte non ci sono state".

Ma ora a che punto siamo? Dopo l'archiviazione prima accennata, si sono aperti altri due fascicoli: uno per le violenze da parte di cinque agenti della Polizia Penitenziaria nei confronti dei detenuti e uno per 70 rivoltosi indagati per devastazione, saccheggio, resistenza a Pubblico Ufficiale, incendio e - per tre di loro - tentata evasione. Questi rischiano dagli 8 ai 15 anni di carcere che, "per un pomeriggio di rivolta, è veramente tanto". 

Oltre a questi procedimenti presso i giudici nazionali, è stato accolto il ricorso che l'Avv. Luca Sebastiani - legale della famiglia Chouchane - aveva presentato presso la CEDU. Un secondo ricorso alla Corte Europea dei Diritti dell'Uomo è stato presentato anche dall'Associazione Antigone, che è in attesa di un riscontro. Al di fuori delle vicende strettamente processuali però, anche a livello sociale qualcosa pare iniziare a muoversi: la pubblicazione di un libro interamente dedicato alla vicenda infatti, ha contribuito all'apertura di un dibattito pubblico, che oltre a proseguire continua ad alimentarsi con conferenze, presentazioni, e discussioni.

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