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Mercoledì, 24 Aprile 2024
Cronaca

San Geminiano, la lettera dell'Arcivescovo alla città: "L’essere umano prima delle categorie"

Mons. Castellucci prosegue la tradizione dei suoi predecessori e, in occasione del Santo Patrono, indirizza un messaggio ai modenesi. Ecco il testo integrale

“Quanti siete stati battezzati in Cristo, vi siete rivestiti di Cristo. Non c’è più giudeo né greco; non c’è più schiavo né libero; non c’è più uomo né donna, poiché tutti voi siete uno in Cristo Gesù”. In questo passaggio della Lettera ai Galati (3,27-28), San Paolo concentra la novità portata da Gesù con la sua predicazione, azione e persona: farci “uno” in lui, incarnare l’unità di Dio con l’uomo e degli uomini tra loro. La Chiesa esiste per servire questa unità: la sua identità, come afferma il Concilio Vaticano II, è di essere “segno e strumento dell’intima unione con Dio e dell’unità di tutto il genere umano” (Lumen Gentium 1).

1. Un tessuto  sociale sano
Da pochi mesi ho avviato il mio servizio episcopale a Modena-Nonantola e per la prima volta, seguendo una tradizione avviata dal vescovo Benito Cocchi, mi rivolgo alla Città in occasione della Solennità del nostro grande protettore, San Geminiano.
Formulo questa lettera con molta gratitudine, perché sono stato accolto con grande cordialità e disponibilità, espressa sia dalle istituzioni civili e militari, sia dai molti cittadini che ho incontrato o mi hanno scritto. Il tessuto sociale di Modena mi sembra fondamentalmente sano, costruttivo, laborioso e intraprendente. Non ho avvertito quel clima lamentoso e rassegnato che altrove si respira, ma piuttosto – nonostante i molti e complessi problemi – il desiderio di progettare e collaborare.

2. Il contributo  della Chiesa alla Città
Quale contributo offre e può offrire la Chiesa alla Città? In che modo può servire l’unità degli uomini con Dio e tra di loro? La risposta è semplice: continuando a svolgere la sua missione pastorale nella fedeltà al Vangelo. È semplice, però solo in teoria, perché in pratica le persone appartenenti alla Chiesa – ossia i battezzati – cadono spesso nei peccati, nei compromessi, nella ricerca dei propri interessi, talvolta persino nell’illegalità e nel reato. Come scrive Giovanni Paolo II, dunque, per “rifare il tessuto cristiano della società umana”, “la condizione è che si rifaccia il tessuto cristiano delle stesse comunità ecclesiali” (Christifideles Laici 34). La Chiesa non può indicare credibilmente alla Città le strade da percorrere, se contemporaneamente non percorre quelle stesse strade al suo interno. Chiesa e mondo, del resto, non sono due grandezze parallele, ma si intrecciano: la Chiesa è quella parte di mondo che “guarda con fede a Gesù” come al suo Signore (cf. Lumen Gentium 9). I cristiani sono davvero tali se, all’interno di uno Stato libero e democratico quale è il nostro, sono prima di tutto cittadini onesti. E credo allora che, con tutti i suoi difetti, la comunità ecclesiale incida positivamente sulla comunità civile.

3. Lo stile del confronto 
Nell’agenda sociale di oggi, nazionale e non solo modenese, molti sono gli argomenti all’ordine del giorno. Due tra di essi convogliano ai nostri giorni molte passioni: l’immigrazione e le unioni civili. Sono due temi che destano contrapposizioni culturali e politiche, animano dibattiti anche accesi, ispirano trasmissioni televisive, articoli giornalistici, convegni e numerose prese di posizione, producono abbondante bibliografia.
Non intendo entrare nel merito delle questioni, perché sarebbe ridicolo e presuntuoso dire qualche cosa di sensato in poche righe. Intendo piuttosto segnalare lo stile e il contributo che la Chiesa può continuare ad offrire alla Città, in questi come in altri campi.

4. Fratelli oltre le divisioni
Le comunità cristiane delle origini, rispecchiate particolarmente nelle Lettere di San Paolo, si trovavano di fronte a tre grandi divisioni sociali: tra giudei e greci, tra schiavi e cittadini liberi, tra uomini e donne. Erano come tre grandi muri, considerati da alcuni come divisioni “naturali”; valevano di più queste categorie sociali distintive, rispetto all’appartenenza all’unica famiglia umana. Contavano di più, in altre parole, l’appartenenza etnico-religiosa (giudei e greci e, più in generale, cittadini e stranieri), la disparità sociale ed economica (schiavi o liberi) e la distinzione sessuale (uomini o donne), rispetto alla fondamentale incorporazione al “genere umano”. Di fronte a questi muri, i cristiani non si scoraggiarono e testimoniarono che “in Cristo” tutti siamo uno. Era una testimonianza prima dei fatti che delle parole. Nelle case – dove allora si riunivano, non potendo costruire chiese e strutture, come avviene ancora oggi nelle tante situazioni di persecuzione religiosa – i battezzati cominciarono a definirsi tra di loro “fratelli” e “sorelle”. Le distinzioni tra ebreo, greco, schiavo, libero, maschio e femmina vennero subordinate all’unità data dall’unico battesimo, aperto a tutti e non riservato solo ad alcuni. Nelle case in cui la comunità si incontrava, dette poi dal II secolo Domus Ecclesiae, i fedeli si trovavano tutti “alla pari”: fossero di origine ebraica o pagana, fossero schiavi o liberi, fossero uomini o donne, tutti partecipavano al cammino catecumenale e alle catechesi, tutti potevano prendere parte alle celebrazioni liturgiche e – quando sussistevano le condizioni – fare la comunione e tutti offrivano il loro contributo per progettare la vita missionaria e pastorale della comunità e per assistere i poveri e i malati.

5. Testimoniare con umiltà e fermezza
Attraverso questa esperienza, fondata sull’abbattimento dei muri da parte di Gesù – muri che emarginavano bambini, donne, schiavi, malati, peccatori e stranieri – le prime comunità cristiane compresero ancora meglio il significato della creazione, per cui su ogni essere umano è impressa l’immagine e somiglianza di Dio (cf. Gen 1,26-27) e il significato della redenzione, per cui ogni essere umano, senza distinzione, è unito a Cristo e salvato da lui. Con umiltà e fermezza i cristiani inserirono nelle società antiche il valore della dignità della persona umana e la sua priorità rispetto a tutte le distinzioni di ruoli e condizioni, il primato del sostantivo rispetto all’aggettivo. Umiltà e fermezza: questo è lo stile evangelico. Umiltà: la Chiesa sa di essere, nella società pluralistica, una delle voci in campo nella società civile e di non avere più corsie preferenziali. Anche per questo non fanno parte del suo stile l’arroganza e la provocazione polemica – prassi così diffuse nel dibattito pubblico – e sono comprese invece la mitezza (cf. Mt 5,5; 11,29) e la disponibilità a ragionare (cf. Gv 18,23). Fermezza: la Chiesa non può rinunciare a portare avanti, in ogni cultura, quei valori fondati sul Vangelo che ritiene siano contributi alla crescita della civiltà. Se i primi cristiani non avessero osato sfidare i dogmi della società dell’epoca, quelle divisioni etniche, religiose, sessuali, economiche e sociali si sarebbero sfaldate con maggiore difficoltà.

6. Una comunità di laici e pastori
7. La Chiesa è una realtà variegata e non monolitica. Una convinzione diffusa identifica la Chiesa con i suoi pastori (papa, vescovi e preti), mentre in realtà essa è formata da tutti i cristiani e quindi, nella grande maggioranza, da laici. Come ha chiarito definitivamente il Concilio Vaticano II, mentre ai pastori compete la formazione delle comunità cristiane attraverso la predicazione, la celebrazione e la guida pastorale, ai laici compete l’impegno diretto nei diversi settori della vita sociale. Non si può chiedere ai pastori, come talvolta avviene, di sostituirsi ai laici: sul fenomeno migratorio come sulle unioni civili – per accennare ancora ai due temi oggi più caldi – spetta ai laici cristiani entrare nei diversi luoghi in cui si svolge il dibattito: dalla famiglia ai partiti, dalla scuola al mondo del lavoro, dalla cultura al volontariato. Ai pastori spetta formare le comunità ai valori di fondo – fondati sulla rivelazione e sostenuti dalla ragione – che sono alla base delle mentalità e delle prassi e sfociano nelle leggi e nelle normative.

7. Prima il sostantivo e poi l’aggettivo
 In questo spirito, concludo la lettera richiamandone l’idea di fondo: il sostantivo è più importante dell’aggettivo. Il sostantivo “essere umano” è più importante delle sue specificazioni: cittadino o straniero, uomo o donna, cristiano o musulmano, bianco o nero, povero o ricco, sano o malato, nascituro o nato, giovane o vecchio, santo o peccatore. Se dimentichiamo questo principio, fondamento della civiltà occidentale nata anche con l’apporto del cristianesimo, retrocediamo anziché progredire. Questo principio è servito soprattutto a proteggere gli esseri umani più deboli e riconoscere loro uguali diritti.

Nel dibattito sull’immigrazione, occorre tenere presente la priorità dell’“essere umano” sullo “straniero”, specialmente quanto è rifugiato e quindi in una situazione particolarmente debole e sofferente; dentro a questa priorità va favorita l’inclusione o integrazione sociale, in un contesto di piena legalità e adesione alla Costituzione italiana e alle leggi del nostro Stato. La Città non può respingere per principio chi proviene da fuori, ma deve favorire – come sta facendo – un processo educativo che comporta l’alleanza tra istituzioni pubbliche e private, famiglie, scuole, parrocchie, volontariato. La Chiesa quindi fa e può continuare a fare molto per l’accoglienza e l’integrazione, contribuendovi attraverso la sua grande e spesso poco appariscente opera educativa, verso i cristiani e verso i non cristiani.

Anche nel dibattito sulle unioni civili e sui temi in genere ad esso collegate – come il gender o le unioni omosessuali – è necessario comporre il riconoscimento dei cosiddetti “diritti civili”, in modo che non vi siano discriminazioni individuali, tenendo però presenti le parti più deboli: la famiglia fondata sul matrimonio e i bambini. La famiglia sposata, infatti, appare oggi in alcuni casi socialmente penalizzata rispetto alle coppie conviventi; dai tempi antichi, invece, le legislazioni avevano favorito l’unione stabile tra un uomo e una donna, in vista dell’accoglienza ed educazione dei figli e di una trasmissione ordinata del patrimonio: non quindi per motivi religiosi, ma per motivi sociali. I bambini poi, per crescere e maturare, richiedono entrambe le figure parentali, maschio e femmina: è necessario mettere loro, come parte più fragile, al centro dell’attenzione e farne il perno dei “diritti” anche quando si tratta dell’adozione. 

Consegno queste riflessioni a chiunque desideri proseguire un dibattito che non si limiti a dare voce ad emozioni momentanee, ma accetti di ragionare e confrontarsi sulla teoria e sull’esperienza.

+ Erio Castellucci

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