Le erbe palustri diventano arte, l'artigianato al Mercato Albinelli
Giornata di altri tempi sabato 10 marzo dalle 10 alle 13 al mercato Albinelli. Presenti cinque artigiani impegnati a intrecciare, lavorare materie prime povere della tradizione modenese che spiegheranno come raccogliere, utilizzare e conservare il materiale da intreccio e le tecniche di base per lavorarlo.
Mirco Pederzini, l’unico ed ultimo artigiano che raccoglie e lavora la paviera o typha, erba palustre che cresce spontanea nelle campagne della provincia di Modena, mostra l’antica arte ed espone le sue incredibili borse. Sarà affiancato da Anna Sant’Unione, mentre Anna Baraldi accompagnata da Nerino Bellucci al tornio, intreccia ed espone magnifici cappelli, di varie fogge, realizzati con le stesse tecniche dei tempi antichi, in particolare nella “bassa”. E poi il cestaio Ettore Gastini, che intreccerà bellissimi cesti, tradizione delle nostre campagne, con saggina, sanguinello, robinia, ginestra, ligustro, salice viminale, giunco, nocciolo, olmo.
Nel nostro paese questo particolare tipo di artigianato è sempre esistito, anche se ha avuto la sua massima diffusione negli anni precedenti, durante e dopo la seconda guerra mondiale fino agli anni Sessanta quando è iniziato un lento ma inesorabile declino che ne ha portato alla quasi totale scomparsa. Le erbe palustri impiegate appartengono principalmente a tre generi: Typha, Carex e Juncus ed erano usate per la produzione di borse, cesti, per impagliare sedie e fiaschi di vino, per cappelli, stuoie, scatole per confezioni di generi alimentari. Durante la Seconda Guerra Mondiale e negli anni immediatamente successivi la lavorazione della paviera, del salice e della saggina era dopo l’agricoltura il principale reddito di moltissime famiglie. Si produceva di tutto, dalla sporta per la spesa alla borsetta elegante, dai cappelli alle stuoie, dalle scatole per confezioni alimentari ai cesti per la frutta, produzione che alimentava un florido mercato interno e veniva addirittura esportato in paesi stranieri. Era un lavoro principalmente effettuato dalle donne. Nelle lunghe serate invernali si ritrovavano nelle stalle per lavorare, e stare in compagnia: le ragazze imparavano il mestiere dalle più anziane divertendosi. Gli uomini che lavoravano come “cameranti”, operai agricoli ad ore, ed i contadini della fascia dei terreni paludosi e vallivi comprese nell’area fra Secchia e Panaro d’inverno avevano tempo da dedicare all’intreccio di sporte, ceste, stuoie e gabbie per pollame. Come spazio di lavoro si usavano le stalle, dove si poteva lavorare al caldo. Negli anni Sessanta quando l’industrializzazione diffusa promette più facili guadagni e nessuno più vuole intraprendere il mestiere di “sportaia” o di “cestaio”. L’avvento delle materie plastiche rendono del tutto antieconomica la produzione di tanti piccoli oggetti in paviera o salice. Dalla fine degli anni Novanta un gruppo artigiani sta soffiando sulle ceneri dei ricordi per far riprendere un po’ di vigore a questa arte, per non farla scomparire definitivamente. Grazie alla memoria e all’esperienza delle mani di esperte artigiane, che hanno passato una vita a intrecciare foglie di tifa, si cerca di trasmettere ai giovani questa tradizione.