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L'ombelico di Venere: il poema di Giuseppe Ceri sulla nascita dei 'turtlèin'

Ispirato da 'La Secchia Rapita' di Alessandro Tassoni, il poeta ottocentesco Ceri narra la leggenda della nascita del tortellino. Ecco il poema integrale

In una poesia ottocentesca di Giuseppe Ceri intitolata "L'ombelico di Venere" - rifacendosi ad un episodio riportato da Alessandro Tassoni nel poema eroicomico "La Secchia Rapita" - è raccontata la prima versione della presunta nascita del tortellino.  Protagonista della vicenda è la dea Venere che, secondo la leggenda, si sarebbe fermata a soggiornare in una locanda, insieme agli dei Marte e Bacco, durante il periodo di guerra e rivalità tra i Petroni e i Geminiani.

Qui di seguito un riassunto e il poema originale di Giuseppe Ceri.

Ma il mattino successivo Venere si sveglia in solitudine e presa dalla rabbia per la prematura dipartita di Marte e Bacco suona con violenza il campanello per far accorrere l'oste il prima possibile. 

-Sai tu, villan cornuto, Ove son iti i due compagni miei? - domanda la dea al povero oste che, ignaro, nega di sapere le intenzioni dei due dei. Allora la dea con un salto s'alza in piedi e, scostando le lenzuola, lascia intravedere dalla camicia bianca il divino ombelico. L'oste, dopo aver fatto un soave inchino alla dea, corre subito verso le cucine con un'idea che gli balena per la testa: realizzare con la sfoglia un manicaretto che imitasse la forma del divino ombelico.

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L'ombelico di Venere :il poema originale

"Quando i Petroni contro i Geminiani Arser di fiero sdegno Per la rapita vil secchia di legno: E senza indugio armati Accorsero di Modena alle porte Minacciando mine e stragi e morte Venere, Marte e Bacco, Dal ciel discesi in terra A parteggiare in quell'atroce guerra, Vollero dar riposo Al faticato fianco Nell'antica osteria di Castelfranco Dove la dolce notte Dal Tassoni cotanto celebrata, Venere innamorata Tutt'intera trascorse In braccio ora di Marte, or del Tebano, D'onta coprendo lo zoppo dio Vulcano. Ma, giunta la dimane Mentre il carro d'Apollo Senza il menomo crollo Della volta del cielo era salito Alla più eccelsa parte, Bacco ed il fiero Marte Zitti e cheti, lasciata in letto sola La divina compagna, Andarono a girar per la campagna.

Dopo un profondo sonno Venere gli occhi dolcemente aprio E non veggendo l'uno e l'altro dio Giacere ai fianchi suoi, Tale tirata diede al campanello Che fece risonar tutto il Castello. L'oste che stava intento Ad aggirar l'arrosto Le scale come un gatto ascese tosto, E nella stanza giunse, Dove in camicia, seduta sul letto In volto accesa d'ira e dì dispetto Stava la diva donna, Di cui la sera innanzi ebbe opinione Ch'egli fosse un bellissimo garzone. -Sai tu, villan cornuto, Ove son iti i due compagni miei? - Signora, io non saprei, Pronto rispose l'oste; Ma dianzi per istrada Quel dal pennacchio rosso e dalla spada Guardandomi in cagnesco, M'ha detto a mala pena Che questa sera torneranno a cena.

A siffatta notizia Venere bella serenò le ciglia; Poi con gran meraviglia Dell'oste lì presente Come se fosse sola, Le candide lenzuola Spinse in mezzo alla stanza, Le belle gambe stese, Dall'ampio letto scese Con un salto sì poco misurato Che sollevandosi la camicia bianca, Poco più su dell'anca, Onde l'oste felice (Lo dico o non lo dico?) Di Venere mirò il divin bellico! Ma non si creda già C'he a quella vaga e seducente vista Pensieri di conquista L'oste pudico entro dì sé volgesse; Anzi un'idea soavemente casta D'imitar quel bellico con la pasta Gli balenò nel capo; Ond'egli qual modesto cappuccino, Fatto alla Diva un riverente inchino In cucina discese; E da una sfoglia fresca Che la vecchia fantesca Stava stendendo sovra d'un tagliere, Un piccolo e ritondo pezzo tolse, Che poi sul dito avvolse In mille e mille forme Tentando d'imitare Quel bellico divino e singolare. E l'oste ch'era guercio e bolognese, Imitando di Venere il bellico L'arte di fare il tortellino apprese!"

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