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Cronaca Corso Duomo

San Geminiano, l'omelia dell'Arcivescovo in Duomo

Riportiamo il testo integrale dell'omelia pronunciata da mons. Erio Castellucci durante la messa pontificale della solennità del Santo Patrono di Modena

Le sculture frontali sull’architrave della Porta dei Principi o del Battesimo, in questo Anno giubilare Porta Santa, rappresentano sei scene della vita di San Geminiano, relative in particolare al suo viaggio in Oriente per guarire la figlia dell’imperatore Gioviano. Nella prima, da sinistra, Geminiano segue un soldato a cavallo che lo guida verso Costantinopoli; nella seconda il vescovo naviga verso la capitale dell'Impero, impegnato nella lotta contro una tempesta; poi, nella scena seguente, guarisce la figlia dell'imperatore posseduta dal demonio, quindi riceve i doni dall’imperatore, riprende la strada del ritorno e nell'ultima scena muore. Sono sei scene molto movimentate. Il viaggio di andata sulla terraferma, la traversata in mare, la scena di esorcismo, il viaggio di ritorno e infine l'ultimo e supremo viaggio, la morte. L'esistenza di San Geminiano, arricchita dalle leggende che lo riguardano, è stata un grande viaggio. Ma l'esistenza di ogni essere umano è un viaggio: non possiamo scegliere tra muoverci o stare fermi; come disse il grande filosofo Pascal, “noi siamo imbarcati” nel viaggio della vita. “Siamo imbarcati”: non possiamo cioè decidere se metterci o meno in viaggio: quando diventiamo coscienti di esistere, siamo già in viaggio da tempo. La nostra esistenza terrena è una traversata, che ha un inizio e un approdo, e si inoltra qualche volta su sentieri faticosi, e rotte inattese, imprevedibili. Sentieri e rotte che non possiamo disegnare completamente, di cui non conosciamo anticipatamente il tracciato, la cui meta ci desta qualche volta paura. Noi non disponiamo della mappa completa della nostra vita.

Abbiamo però una possibilità: scegliere tra un viaggio solitario o un viaggio comunitario: e non penso semplicemente ad un viaggio con altri ma ad un viaggio per altri. A rendere memorabile il viaggio di San Geminiano – tanto memorabile da rimanere scolpito nella pietra per un millennio – non è il fatto che si sia mosso, abbia attraversato il mare, abbia combattuto il diavolo; è il fatto che non ha viaggiato per se stesso, ma ha viaggiato per altri. È già importante viaggiare con altri, perché quando ci si muove da un luogo all’altro la compagnia è più augurabile della solitudine. Ma il senso della vita lo trova chi viaggia per gli altri, chi persegue una meta che va al di là del proprio interesse. Chi viaggia per se stesso prova certo meno fastidi, ma alla fine viaggia a vuoto, come un vagabondo; chi viaggia per altri sente una responsabilità maggiore, ma viaggia con una meta, come un pellegrino. Ezechiele, Paolo e soprattutto Gesù hanno sempre viaggiato per gli altri. La loro vita non è stata facile, anzi se la sono complicata proprio camminando per gli altri; ma è stata una vita piena di senso. Ezechiele sarebbe rimasto sicuramente più tranquillo se non si fosse sentito dire da Dio, per due volte, “io domanderò conto a te” della morte del malvagio che tu non avrai prima messo in guardia dal compiere ingiustizia. In fondo che colpa ne ha Ezechiele se un altro, non lui, si comporta male? Si vede che per Dio nessuno di noi è un'isola, ma tra di noi ci sono dei ponti che creano una reciproca responsabilità. Io sono responsabile anche del fratello. E Paolo di Tarso, che è un uomo libero anche giuridicamente – è un cittadino romano – si sente quasi obbligato da Dio ad annunciare il Vangelo: “guai a me se non predicassi il Vangelo!”. È un cittadino libero, ma dice di essersi fatto “servo di tutti”: una specie di retrocessione sociale, “per salvare ad ogni costo qualcuno”. La vita di Paolo è un viaggio in senso letterale: ha girato in lungo e in largo l'impero romano per portare il Vangelo, ha affrontato i sentieri più arditi e pericolosi per “guadagnare i deboli”. Si è complicato da solo la vita per semplificarla ad altri, si è degradato da solo alla condizione di servo perché molti potessero gustare la libertà del Vangelo. Ma è soprattutto Gesù ad interpretare la sua vita come viaggio per gli altri: “percorreva tutte le città e i villaggi”, dice Matteo. Perché, o meglio per chi? Per le “folle stanche e sfinite” di cui sente compassione, per sollevarle con la predicazione del Vangelo, con la liberazione dagli spiriti immondi, con la guarigione da malattie e infermità. Gesù avrebbe avuto tutte le carte in regola per essere felice da solo: un lavoro, una buona reputazione, la capacità di parlare, un certo fascino personale, persino la possibilità di compiere miracoli. Perché si complica la vita andando a cercare e curare le “folle stanche e sfinite”? Perché il Padre lo ha inviato a farsi responsabile dei fratelli, cioè a “rispondere” alla loro miseria e debolezza.

Mentre di Ezechiele e Paolo potremmo limitarci ad apprezzare l'esempio, lodando il loro altruismo, Gesù ci interpella direttamente, non ci lascia alcun alibi: vuole che anche noi viaggiamo per i fratelli; siamo noi infatti quegli “operai” per la sua messe, siamo noi quei dodici discepoli, che lui invia a combattere per il bene e a guarire. Nella misura dei nostri compiti ecclesiali, familiari, professionali, civili, politici, militari, noi siamo “responsabili” dei nostri fratelli, specialmente di quelli che Paolo chiama “i deboli”, di quelle “folle stanche e sfinite” che destano la compassione di Gesù. Accettando di compiere il viaggio non solo con gli altri, ma anche per gli altri, noi ci complichiamo la vita; ma ce la complichiamo per amore, perché sappiamo di non essere delle isole, perché intendiamo mettere i nostri doni – pochi o molti che siano – a servizio dei fratelli. Il giovane Geminiano, quando seppe che volevano farlo vescovo dopo la morte di Antonino, si nascose tra i boschi di Saliceta: inutile tentativo, perché fu scovato e costretto ad accettare. Gli incarichi di responsabilità, in tutti i campi, destano timore, poiché prestano il fianco a critiche e accuse e rendono vulnerabili; per questo richiedono grande libertà interiore e dedizione disinteressata: conquiste mai del tutto raggiunte. E richiedono soprattutto di mettersi dalla parte dei deboli, delle folle stanche, di coloro che sono più esposti alle ingiustizie. Richiedono, come ho provato a dire nella Lettera alla Città, di considerare sempre l’essere umano prima delle categorie a cui appartiene, di mettere sempre il sostantivo “persona” prima di ogni aggettivo. Se un'autorità qualsiasi, anziché “debole con i deboli” – come chiede San Paolo – si facesse “forte con i deboli” o “debole con i forti”, contraddirebbe il suo compito fondamentale, che è quello di riportare e assicurare la giustizia. La “compassione” che prova Gesù, di fronte alle folle stanche e sfinite, non è alternativa alla giustizia, ma ne è l'anima: compensa quella debolezza che spesso rende impossibile agli ultimi di far valere i loro diritti.

Chiediamo al Signore, per l’intercessione del nostro grande protettore Geminiano, di navigare sempre per gli altri, sapendo che, giunti al porto, il Signore ci domanderà se avremo accolto nella nostra barca chi spesso viene abbandonato in mare aperto, perché non ha la possibilità di costruirsi da solo l’imbarcazione e di affrontare degnamente la traversata. 

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