"Quel che resta", lo spettacolo in scena al Teatro dei Segni
Sabato 15 ottobre alle ore 21.00, al Teatro dei Segni di Modena, nell'ambito di Màt Settimana della Salute Mentale XII edizione, va in scena lo spettacolo che inizia così: “In un tempo non definito, ci fu detto che dovevamo abbandonare le parole e i ricordi contenuti in esse”. Il titolo è “Quel che resta" ed è uno spettacolo del Gruppo l'Albatro con Luca Bartoli, Sara Camellini, Giulia Carlotti, Antonio Congedo, Giulio Ferrari, Gilberto Gibellini, Francesca Nardulli, Maria Chiara Papazzoni, Marcello Padovani, Patrizia Vannini. Voce fuori campo Massimo Don. Regia Oxana Casolari, Danilo Faiulo e Francesca Figini. Drammaturgia Damiana Guerra e Teatro dei Venti. Supervisione artistica Stefano Tè.
Spettacolo consigliato dai 12 anni in su, secondo appuntamento di Abitare Utopie / Eventi. Ingresso gratuito con prenotazione obbligatoria: cell. 345 6018277 - biglietteria@trasparenzefestival.it.
"Ci furono concessi trenta giorni per prendere congedo dalle parole. Ma un gruppo di persone, di sognatori oserei dire, decisero di non arrendersi e di rifiutare il processo. Per fare questo individuarono un rifugio e, portando all'interno tutto il necessario per sopravvivere, vi si rinchiusero. Con la speranza che, restando al suo interno, il processo di eliminazione delle parole non li avrebbe toccati. Quello che state per vedere sono gli ultimi trenta minuti del trentesimo giorno."
"Quel che resta" è una produzione Teatro dei Venti con il contributo del Ministero della Cultura e della Regione Emilia-Romagna. Il percorso di creazione è stato realizzato nell’ambito del progetto regionale Teatro e Salute Mentale, con il sostegno del DSM – DP dell’AUSL di Modena, dell’Otto per Mille della Chiesa Valdese e della Fondazione di Modena all’interno di “Abitare Utopie II edizione”.
Uno spettacolo che racconta di un tempo in cui gli esseri umani possedevano quella cosa che veniva chiamata "parola". Agli occhi degli scettici era solo una particella sonora, una vibrazione dell’aria che veniva emessa grazie alle corde vocali. Oppure era considerata solo come un segno grafico su un foglio. Ma la parola non era solo questo. Perché era traghettatrice di sogni, sensazioni, sentimenti, emozioni, dolci, salati, pasta, musica, pantaloni, torte, occhiali, penne, racconti, poesia, conoscenza, medicina, scienza, salvezza, fede. Ma la parola era anche paura. Era anche guerra. Orrore. Violenza. Aggressione. Sopraffazione. Crudeltà.
L’umanità era arrivata ad un punto tale di ingiustizia nel mondo, di atrocità, di violenze che era necessario trovare un rimedio. Doveva per forza essere una fine. Per consentire finalmente una rinascita. Una nuova pace. Per questo venne deciso di bandire ogni tipo di parola. Non sarebbe stato più possibile utilizzarle, scritte o orali che fossero. La parola non doveva più esistere. E con essa, si sarebbe spento ogni concetto a lei associato.
Fu loro concesso un tempo di trenta giorni per prendere congedo dalle parole, trenta giorni per dire, dirsi e ascoltare le ultime. Al termine del trentesimo giorno, la stessa magia che le parole utilizzavano da millenni per innescare reazioni sarebbe servita per disattivarle. Era noto a tutti che quindi, dopo quel tempo, nessuno avrebbe più potuto utilizzarle. Neppure se lo avesse voluto. Tutti avrebbero dimenticato la parola. Senza eccezione alcuna.
Fu proprio in quei giorni che un gruppo di persone decisero di non arrendersi. Decisero di rifiutare il processo, di cercare un modo per salvare le proprie parole e quindi di salvare loro stessi. Per fare questo individuarono un rifugio e, portando all’interno tutto il necessario per sopravvivere, vi si rinchiusero. Con la speranza che, restando al suo interno, il processo di eliminazione delle parole non li avrebbe toccati.